11 marzo 2010

Il caso Prezzemolina

Una donna incinta ruba prezzemolo alle fate. Loro, furbe, la colgono in flagrante e le fanno promettere che, appena nato, il frutto del ventre le sarebbe stato loro.
Appena può, la neo mamma obbedisce, probabilmente per non pagare le future tasse universitarie o cliniche abortive.
C’è poi una torre ed un principe (in alcune versione, un parente delle fate) che sale usando i di lei capelli come scala. Appuntare: ricordare a Cesare Ragazzi di pensare a nuovo testimonial.
Prezzemolina fugge insieme al principe con le ghiande in mano. Non quelle del principe.
In realtà la storia s’ingarbuglia perché ci sono varie versioni e, a volte, le fate sono un’orca.
Non avevo voglia di leggermi tutte le versioni ma forse basta aspettare che se ne accorga Tim Burton, in modo che possa rifilarci altre due ore tridimensionali e di una noia mortale.

Quello che colpisce è una frase che, in una delle versioni, la nostra eroina pronuncia: “preferisco dalle fate esser mangiata, che da un uomo esser baciata”.
La confusione impera nel cervello di fantasia di Prezzemolina.
Primo, le fate non mangiano nessuno ma sono brave e buone. Al limite sono le streghe che fanno cose brutte. Poteva almeno chiedere alle colleghe Biancaneve, Gretel o a quell’altra che dorme nel bosco.
Secondo, il rifuggire il bacio di un uomo denota in lei un’ambiguità dovuta alla poca chiarezza nella sfera sessuale.
Cala capelli ma non cala le brache. Ed il principe rischia la vita per cosa?
Il quesito che resta, in definitiva, è: Prezzemolina è omosessuale?
O solo omofoba?
E se lo fosse? Lo sa oppure rimanda tutto ad un’incapacità di relazionarsi con il prossimo, specie se uomo?
E' proprio vero che tira più un...? Va bene, si è capito.

Quesiti che resteranno irrisolti, attendendo il secondo capitolo della saga.
Per l'occasione, sembra sia stata contattata anche la quattrocchia volante da Hogwartz ,anche se ,alcuni maligni sostengono che un giovane maghetto di ormai cinquant'anni sia poco credibile.
Si preannuncia, in ogni caso, un sequel denso di eventi: la solita lotta bene contro male arriverà al proprio climax nello scontro con il granchio cameriere.

Stay tuned!

7 marzo 2010

Dal 2006: In vino veritas?


Sto guardando Barfly, un film degli anni credo-ottanta. Scritto da Hank Cinaski e interpretato da Mickey Rourke.
E mi viene in mente: ubriacarsi.

La prima volta non la si scorda mai. Ero in Sardegna, ospite di una delle fidanzate radical-chic di mio fratello. Una specie di comprensorio di villini, pieno di giovani. Avevo quindici anni e tra cotal juventudine c’erano tre ragazzi inglesi. Ricordarsi i nomi avrebbe del miracoloso.
Verso le cinque si giocava a calcio e la sera, non saprei, ero un ragazzino. Solo una sera ricordo. Spiaggiata con falò. Mi metto insieme a questi tre giovani sudditi della Regina e parliamo e intanto loro bevono. Ed io non posso declinare l’invito. I numerosi inviti a brindare.
Mi insegnano alcuni cori da stadio delle loro terre. Si ride e si scherza.
Intanto mi nutro del profano nettare. Insomma, a fine serata non mi reggo in piedi. Ricordo che non riuscivo a levarmi la sabbia da una scarpa, stando in equilibrio sul piede con calzatura. Ricordo che son tornato e sono crollato di testa sul divano dell'appartamento. Peccato che fosse in muratura.
Questa è storia vecchia.
 
Dicevo, ubriacarsi. Bere in maniera del tutto lecita. Riempirsi di libagioni alcoliche senza darsi un freno. Continuare a buttare giù roba anche quando la sete è ormai placata da ore.
Mi chiedo che sensazione da?
Quali ricercate idee si producono in quei momenti?
È proprio vero che in vino veritas?
La sensazione più viva che ricordo sono gli alberi, pardon, i rami degli alberi che girano, girano, girano.
Sento la mente molto leggera come a voler dimenticare i problemi, grandi o piccoli che siano. Sento la voglia di comunicare con il prossimo, che di solito latita.
Sento la voglia di correre, la testa gira e se ne va per conto proprio e l’essere ubriachi consiste solamente nel fatto che la si lascia fare. Perché non concederle un giro turistico del mondo libera da guinzagli e legami?
Sto finendo la seconda birra e non sarò mai come Bukowski. In realtà, non lo voglio essere anche perché, a dirla tutta, i suoi scritti non è che siano tutta sta bellezza: monotoni, volgari, ripetitivi. Geniali, a volte. Glielo concedo.
È finita l’era della beat generation, dei poeti maledetti, delle rock-star “sesso-droga-rockenroll”.
Questo è l’anno duemilasei, del millenium bug se ne ride e questo è semplicemente un venerdì sera in un paesino della Toscana.

Forse si beve per dimenticare…
Forse si beve per ricordare…
Forse si beve perché i ricordi così fanno meno male…
Forse si beve perché, insieme al tabacco e ai sogni, è l’unica droga rimasta legale…
Ognuno beve per i propri motivi personali. Molti non si sono mai ubriacati in vita loro.
Io bevo perchè mi piace fuggire al controllo di me stesso.

6 marzo 2010

S.P.Q.R.

Sono andato via che erano gli inizi degli anni 90. Un pezzo di elementari, le medie, una classe e mezzo delle superiori.
Non possedevo mezzo proprio di locomozione ma avevo le gambe, i mezzi pubblici e gli amici.
Con un autobus si arrivava a Ponte Milvio. Non era quello dei lucchetti. Era quello del forno, della gelateria, del videonoleggio (videocassette!!!), del negozio che affittava giochi per il GameBoy. Era il mio piccolo regno. Pomeriggi sempre li a non fare niente di speciale se non respirare il Tevere e riempire le orecchie con la musica del traffico. E non c'è alcuna ironia in quello che dico.
Abitavo in un quartiere residenziale, oggi gettonatissimo e con prezzi al metroquadro da far accapponare la pelle.
Ma le mie classi, erano quanto di più all'avanguardia ci fosse.
Oltre ai classici "pariolini" e figli di papà, c'erano i figli delle famiglie delle case occupate e i bambini di colore in affido alle suore. E tutto era normale!!! Nessuna distinzione di classe sociale. Nessuna menata per crocifissi o metodi di integrazione. Alla fine degli anni ottanta avevo una classe multietnica e non lo sapevo perchè il termine ancora non andava di moda. Avevo vicini con situazioni complicate ma non li compativo. Semmai, fin dove potevo, cercavo di capire. E basta.
Sapevo solo di avere dei compagni di classe e degli amici. Eravamo persone. Al liceo qualcosa era cambiato. Evidentemente crescendo, alcuni ritengono che le differenze contino più delle cose in comune. In effetti, una differenza palese c'era. Chi aveva il motorino e chi, invece, no. Sorvoliamo volentieri sul voler sapere di quale delle due caste io facessi parte, per favore.

Al cinema andavo ma solo in quelli che potevano essere raggiunti con massimo due autobus. Aumentandone il numero si sarebbe trasformato in un viaggio. Di base il 446, o "quattro piotte", e poi a scelta. Al Cola di Rienzo ho visto "Batman". Era il 1989 e nessuno parlava di "teniamo in casa i bambini che l'uomo nero ce li porta via". Le raccomandazioni dei genitori c'erano ma, forse,  si aveva meno paura.

Via del Corso era la giornata "una volta ogni tanto". Quello era il centro. Anche se distava solo una decina di minuti, forse quindici, ma senza traffico. C'era McDonald's ed era novità assoluta in quasi tutto il resto d'Italia. Le strade dei grandi. I negozi da grandi. I grandi.
Scendevamo dal "quattro piotte" in piazza Mancini (suo capolinea) e salivamo sul tram (che ora non c'è più).  Ci portava diretti in Piazza del Popolo in meno di cinque minuti (aveva corsia preferenziale, chiaramente). Ma era già un tram moderno e nuovo di pacca. Alle spalle l'Olimpico ci faceva la guardia, restando l'arena inviolabile dei nostri eroi. In giallo e rosso o in bianco e azzurro, secondo i gusti. Il tifo calcistico era un'altra differenza che contava solo nelle prese per culo e non portava mai a contrasti reali.
Con il mio migliore amico, laziale, avevamo scommesso per un derby. Chi avesse perso, avrebbe dovuto indossare per una settimana la sciarpa della squadra "nemica". Io ho perso. Il fatto che non si fosse specificato come andasse portata, però, mi permetteva di trascinarla per terra e nei cassonetti, nel fango e nelle pozzanghere. La "penitenza" è durata circa quindici minuti.
Queste cose, e molte altre, sono Roma, per me.

Roma è una città che resta dentro. Che mi è rimasta dentro. Nel cuore. Nel modo di pensare. Nella parlata, in parte. Nella testa. Roma non è, per me, una metà turistica, è una parte di casa mia, ovunque essa sia.