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8 aprile 2012

Dreams & Visions #2


Sono nell’androne di un palazzo vecchio. Meglio dire, storico.
Dove raggiungere il tuo appartamento.
Le scale, all’inizio normali, diventano sempre più impervie. Prima strette, poi ripide. Poi passano attraverso alcuni cunicoli.
Devo reggermi al muro, abbassarmi, inginocchiarmi, quasi sdraiarmi.
Arrivo al piano più alto dell’edificio, senza trovare casa tua, e mi ritrovo in una camera da letto dove una coppia dorme.
Le pareti ed i mobili sono bianchi, così come le lenzuola. Tutto candido e luminoso.
I due si svegliano e mi guardano. Chiedo scusa e mi giustifico, dicendo che mi sono perduto.
Mi dicono di non preoccuparmi e che la cosa importante è conoscere cosa si vuole per potersi ritrovare.
Inizio a scendere. Scivolo. Cado dalle scale, rotolando senza sentire dolore, solo il rumore di ossa in frantumi e pelle che si lacera.
La caduta si arresta su qualcosa di morbido. Apro gli occhi.
Sono seduto su un divano rosso, in un bel salotto. E tu sei accanto a me e mi guardi.
Provo a spiegarti il perché della mia presenza ma il tuo sguardo mi fa capire che già lo sai.
Hai, finalmente, già capito tutto.
Mentre sono indeciso su cosa fare, entrano, ridendo, i tuoi genitori.
Provo imbarazzo e, di nuovo, sono pronto a dare spiegazioni non necessariamente richieste.
Loro, invece, mi salutano come se fosse normale trovarmi lì. Come se fossi una presenza definita e consueta.

Apro gli occhi. Sono le 8:12 della mattina di pasqua e non ho più voglia di dormire e sognare.

5 aprile 2012

Dreams & Visions


Vedo un uomo seduto alla scrivania. Ha un computer davanti ed una chitarra in braccio.
Sta suonando e ogni tanto scrive qualcosa con la tastiera. Con il mouse fa partire la registrazione. Microfono e chitarra sono collegati ad una scatoletta grigia collegata, a sua volta, al retro dello schermo.
Suona il telefono ed è costretto ad interrompere, sbuffando. Risponde. Dall’altro capo del filo si scusano per il disturbo domenicale ma si tratta di una cosa breve e urgente. L’uomo risponde che non c’è alcun problema. Parlotta un po’. Alla fine saluta e riattacca. Pensa che i problemi più urgenti, sono sempre i più semplici da risolvere.
Si volta verso la cornice sul lato destro della scrivania e si ritrova ad osservare, ancora una volta, la foto al suo interno.
C’è un lui di un paio di anni più giovane.
Pensa che, tutto sommato, non è cambiato molto.
Dalle sue spalle, calano due gambe e sopra la propria testa ne vede un’altra. Gli occhi sono i suoi, le trecce sono di un nero identico a quello che conosce bene, per tutte le volte che ci ha tuffato il viso negli ultimi anni. Delle mani si reggono alla testa. Avvicinandosi, nota che intorno alle unghie sono un po’ mangiate. Quasi fosse un segno distintivo della famiglia.
Sorride e pensa che, in fondo, è cambiato tanto, negli ultimi anni.
Quello che lo ha sempre colpito di quella foto, ricordo di una giornata all’aria aperta, è sempre stato l’occhio che il fotografo ha usato. O meglio, l’occhio della fotografa. In quella foto c’è tutto lo sguardo di lei.
Lo stesso sguardo che ricorda lei aveva una sera di tanti anni prima.
Erano sdraiati sul letto e lei lo guardava in quel modo: come se quello fosse lo sguardo definitvo, come se nessun altro lo avrebbe mai guardato così in futuro. Era quello sguardo che, malgrado tutto, gli dava forza in quel momento.
Era una serata strana: di promesse non accettate, di desideri repressi, di sofferenza. Ma erano anche risate e scherzi. Come sempre. Il suo modo di sdrammatizzare lo portava a cercare di farla ridere e di ridere con lei. Non voleva sminuire l’importanza delle cose dette; voleva, soltanto, allentare un po’ la tensione.
In quel momento sembrava che tutto stesse finendo. Malgrado gli abbracci, i baci, le carezze, il bisogno rivelato con gli occhi, i gesti o le parole.
In quei giorni ogni saluto era stato l’ultimo e non potrà mai scordare il terrore di perderla; o la paura che le cose andassero in una direzione nella quale a lui era vietato andare; oppure il sentirsi bloccato in una situazione senza via d’uscita.
La paralisi data dalla sensazione che il suo futuro sarebbe stato compromesso inevitabilmente per errori commessi in passato.
I suoi pensieri vengono interrotti dal rumore della porta che si apre.
Distoglie gli occhi dalla foto e fa in tempo a salvare quanto registrato prima che, la bambina della foto, arrivi di corsa e gli salti in braccio. Con la bocca sporca di gelato ed un quadrifoglio in mano: “E’ per te! Porta fortuna!”, urla, abbracciandolo.
La ringrazia con un bacio sulla fronte.
Dopo pochi istanti, ecco quello sguardo entrare nella stanza e lui pensa che la fortuna lo ha già premiato anni prima.
E nessun portafortuna potrà mai incrementarla.
E nessun piccone potrà mai abbattere la solidità del muro di quelle sensazioni…neanche dopo tutti quegli anni.

Io sono un'isola


L’isola negli anni, è andata sempre peggiorando.
Il regime instaurato ha avuto alti e bassi ma è rimasto sempre fedele a se stesso.
La volontà di bastare a se è stata la base della politica estera da sempre.
Ci sono stati periodi di apertura, nei quali venivano accolte presenze dall’esterno mentre altre venivano rifiutate in partenza.
Questi periodi sono sempre stati seguiti, in alternanza come le stagioni, da altri di isolazionismo e totale chiusura.
Quando finivano si diceva che era stato meglio così e che la ripresa ci sarebbe stata. Seppur con difficoltà momentanee, è andata sempre in questo modo. Che fossero stati i paesi esteri a ritirarsi o fosse stato il governo a rifiutarli, si restava sempre in piedi.
Oggi, non si vedono tracce di miglioramenti e ripresa. Gli analisti s’interrogano sui perché e non trovano risposta. La razionalità degli studiosi non serve, adesso. La saggezza popolare ed il cuore dell’isola ci puossono venire in aiuto: l’isola non si regge più sulle sole sue gambe.
Si avverte il bisogno di essere affiancati da altri per andare avanti e far si che le cose assumano connotati decisamente più favorevoli.
Perché ogni isola ha bisogno di legami. E non legami qualsiasi. Legami scelti e selezionati. Fino a questo momento, per ogni accordo stipulato si è fatta la valutazione sulla sua effettiva fattibilità e, sempre, il risultato ha portato ad un’interruzione.
Dopo anni di ricerca e tentativi si è giunti alla situazione ideale ed al partner ideale con il quale intraprendere un’esistenza condivisa basata su appoggio e continui scambi.
Sembra però che eventi passati e situazioni odierne contingenti non permettano che tutto ciò avvenga e, mentre il governo dell’isola cerca soluzioni alternative, il suo cuore non riesce a riprendersi. Non riesce a battere come prima. Non riesce a far si che l’organismo funzioni e torni a respirare come sempre.
Ci sono momenti nei quali si dice che tutto andrà bene, ma ce ne sono altri nei quali si resta immobili a fissare un punto ne vuoto che, però, non ha risposte. Ci si trova a prefigurare scenari apocalittici di lento declino.
Forse sarà così. O forse si tratta solo di aspettare tempi migliori. Lasciando che la storia faccia il suo corso e che l’isola torni ad avere quello che si merita, anche se non sempre è stata così meritevole.

26 marzo 2012

Future's chimes Serenade

Ormai non ci vediamo da tanti anni e incrociarti per strada non ha più nessun sapore.
Da quella mail che ti ho mandato anni fa, tutto è finito.
O meglio, non è ricominciato.
Il silenzio dei giorni seguenti è stato un rombo nelle orecchie. La tua assenza una miniera scavata in profondità.
Poi, piano piano, la vita è ripresa normalmente.
Qualche mese dopo ho incontrato una persona e, passato circa un anno, abbiamo deciso di vivere insieme.
Purtroppo non è durata e i piatti volati per aria sono stati la colonna sonora di quel fallimento.
Dopo di lei, è seguito un periodo di calma fino a quando non ho incontrato la futura madre di mio figlio Edoardo (come il cantante del gruppo che mi faceva impazzire quando ero più giovane).
Non è stato facile perchè lei era una cantautrice mediamente nota e spesso eravamo lontani per le sue turnè, quando io non potevo seguirla. Almeno sono finito nelle note di alcuni suoi cd e una manciata di sue canzoni erano dedicate o ispirate a me. Come in "Alta fedeltà" il sogno del protagonista si era avverato.
Non ho mai fatto bungee jumping come mi ero ripromesso perchè, a forza di rimandare, l'idea è sfumata.
Sono però stato a New York e nelle capitali della musica del Nord America: Chicago, New Orleans, Cleveland, San Francisco, Los Angeles e Seattle. E' in quest'ultima che l'ho conosciuta.
Mi ero appostato fuori dagli studi della band di cui sopra e, dopo un'ora, mi sono accorto che non ero solo. Dopo una serie di sguardi di nascosto, lei mi ha chiesto in inglese, di dove fossi. Aveva circa dieci anni meno di me ma i tratti del volto erano già quelli di una donna che sa cosa vuole e cosa, invece, vuole evitare.
Fortunatamente, io non rientravo nella seconda lista.
Abbiamo passato un paio di giorni insieme tra concerti, negozi di vinili e negozi di strumenti musicali.
In uno di questi, ci siamo accorti di volere la stessa chitarra e, senza sapere bene perchè, l'abbiamo comprata a metà. Quella chitarra, oggi, fa bella mostra di se nell'ingresso di casa nostra.
Al ritorno in Italia, ci siamo rivisti ed ho scoperto che lavoro facesse. Non seguivo più le novità musicali da un pò ed il suo nome o il suo volto mi erano ignoti. Quando mi ha detto cosa faceva per vivere, mi sono sentito come se avessi conosciuto la persona che avrei voluto essere: per il tipo di attività ma anche per il carattere e l'intelligenza.
Abbiamo cominciato a frequentarci nei week-end: a volte veniva lei da me, altre io la raggiungevo nelle città dove teneva i concerti.
Una sera, dopo quello che avevo scoperto essere il suo pezzo più famoso (una ballad elettrica sulle scoperte piacevoli dell'esser vivi) ha introdotto il pezzo successivo con parole che non scorderò mai: "tra le miglori scoperte e incontri ce n'è uno che mi porto dentro ora e per sempre. Questa è per lui. Si chiama Seattle's chimes serenade".
E la sua band ha attaccato una furiosa cavalcata sui sentimenti, sulle occasioni, sul caso e...su di me... .
In quel momento ho capito cosa saremmo stati nel futuro. Una famiglia.
E' successo tutto in fretta: la casa insieme, la gravidanza, la nascita.
Siamo sempre riusciti a trovare un equilibrio tra il suo nomadismo lavorativo e la vita insieme. Non so come mai ma è successo.
Ed eccomi qua a scriverti dopo anni solo per augurarti di stare bene e che i tuoi desideri si possano essere realizzati. E forse, se non ti avessi vista oggi, non lo avrei mai fatto, ma lo sappiamo bene che la vita è un gioco fatto di casualità, occasioni perse e occasioni date, immerse nel tempo che mette tutto in ordine.
Prima o poi...

17 gennaio 2012

Ouroboros

Nel frastuono di versi e note, forse, perdo di vista le cose importanti.
Nel rombo di reverberi e distorsioni, a volte, faccio fatica a trovarmi.
Nel silenzio, allora, cerco frastuono e rombo

10 giugno 2011

Percorsi

Arrivare a queste pagine è tornato ad essere più facile. Il resto, no.

7 giugno 2011

Ipotesi n°0

Si
può
lottare

6 giugno 2011

Last Exit

Saremo mica persone che rientrano dalla finestra?
Dalla porta, se dobbiamo rientrare, che sia dall'ingresso principale!

28 maggio 2011

20XX: scenari

Ti ho vista passare in bicicletta. Hai ancora la graziella. Quella della quale, ogni tanto, ti dovresti ricordare di controllare se le ruote sono gonfie. Oggi lo sono. Hai uno strano modo di pedalare oggi. Girata indietro con la testa. Alterni il controllo della strada con quello di un non specificato punto alle tue spalle. Vorrei chiamarti. Sono sul punto di farlo ma sento un rumore di ferro sbattuto al suolo ed un grido. Poi un pianto. Un pianto fanciullo.

Scendi di corsa dalla bici e ti abbassi.

Per terra, tra l’asfalto ed una bicicletta rossa con le rotelle, c’è una bambina con le trecce nerissime e gli occhi scuri bagnati di lacrime. La fai alzare e noto che tiene i piedini storti. Come a volersi proteggere da qualcosa. Come a delimitare uno spazio. Come sua madre anni fa.

Sento che la chiami per nome e le dici “non è niente, tesoro. Solo un graffio”. La prendi in braccio. Lei piange ma, nel tuo abbraccio, si calma. Piano piano. Le chiedi se vuole un gelato e lei ti risponde che preferisce andare dal “signore dei libri”. Vuole vedere se è arrivata quella storia che le hai raccontato mille volte. Ora la vuole leggere con i suoi occhi. O almeno guardare le figure, suppongo.

Ti squilla il cellulare. Rispondi ed inizi a sorridere. Dall’altro capo del filo ci deve essere la felicità. La tua felicità. L’equivalente del forziere dei nani alla fine di un arcobaleno. Parli e sorridi. Sorridi e ridi.

Non mi hai visto. Sono seduto ad un tavolino di un bar. Una volta era un locale modaiolo. Oggi, un baretto gestito da un sessantenne affabile e tranquillo. Passo spesso le mie giornate libere in questo posto. Parlo con lui, leggo, bevo una tisana. Non bevo più birra o altro. Fumo ancora parecchio ma, alla fine, qualche vizio va mantenuto. Chiudi la conversazione al cellulare e ti rivolgi a tua figlia dicendole che era papà al telefono. Le dici che tornerà questa notte, che il lavoro che doveva fare è terminato e potrà stare un po’ con voi prima di ripartire. Lei sorride e le lacrime sono solo un ricordo. Ti rammenta che dovete andare a prendere il libro perché è tanto che lo aspetta.

Ho la tentazione di alzarmi per venirvi incontro ma, in definitiva, penso che, se in questi anni non abbiamo parlato, avrebbe poco senso farlo oggi.

Oggi che sei mamma, sei felice, continui ad andare in bicicletta per la città ed io sono solo un ricordo.

Mi alzo e prendo il cellulare dalla tasca.

Compongo il numero e, dopo tre squilli, risponde: " Soundcheck alle diciannove!!!".

"Lole, vuoi chiudere le tende sulla nostra vita? Per favore. Sono stanco. Lole, per favore..." (J.C. Izzo - "Solea")