6 marzo 2010

S.P.Q.R.

Sono andato via che erano gli inizi degli anni 90. Un pezzo di elementari, le medie, una classe e mezzo delle superiori.
Non possedevo mezzo proprio di locomozione ma avevo le gambe, i mezzi pubblici e gli amici.
Con un autobus si arrivava a Ponte Milvio. Non era quello dei lucchetti. Era quello del forno, della gelateria, del videonoleggio (videocassette!!!), del negozio che affittava giochi per il GameBoy. Era il mio piccolo regno. Pomeriggi sempre li a non fare niente di speciale se non respirare il Tevere e riempire le orecchie con la musica del traffico. E non c'è alcuna ironia in quello che dico.
Abitavo in un quartiere residenziale, oggi gettonatissimo e con prezzi al metroquadro da far accapponare la pelle.
Ma le mie classi, erano quanto di più all'avanguardia ci fosse.
Oltre ai classici "pariolini" e figli di papà, c'erano i figli delle famiglie delle case occupate e i bambini di colore in affido alle suore. E tutto era normale!!! Nessuna distinzione di classe sociale. Nessuna menata per crocifissi o metodi di integrazione. Alla fine degli anni ottanta avevo una classe multietnica e non lo sapevo perchè il termine ancora non andava di moda. Avevo vicini con situazioni complicate ma non li compativo. Semmai, fin dove potevo, cercavo di capire. E basta.
Sapevo solo di avere dei compagni di classe e degli amici. Eravamo persone. Al liceo qualcosa era cambiato. Evidentemente crescendo, alcuni ritengono che le differenze contino più delle cose in comune. In effetti, una differenza palese c'era. Chi aveva il motorino e chi, invece, no. Sorvoliamo volentieri sul voler sapere di quale delle due caste io facessi parte, per favore.

Al cinema andavo ma solo in quelli che potevano essere raggiunti con massimo due autobus. Aumentandone il numero si sarebbe trasformato in un viaggio. Di base il 446, o "quattro piotte", e poi a scelta. Al Cola di Rienzo ho visto "Batman". Era il 1989 e nessuno parlava di "teniamo in casa i bambini che l'uomo nero ce li porta via". Le raccomandazioni dei genitori c'erano ma, forse,  si aveva meno paura.

Via del Corso era la giornata "una volta ogni tanto". Quello era il centro. Anche se distava solo una decina di minuti, forse quindici, ma senza traffico. C'era McDonald's ed era novità assoluta in quasi tutto il resto d'Italia. Le strade dei grandi. I negozi da grandi. I grandi.
Scendevamo dal "quattro piotte" in piazza Mancini (suo capolinea) e salivamo sul tram (che ora non c'è più).  Ci portava diretti in Piazza del Popolo in meno di cinque minuti (aveva corsia preferenziale, chiaramente). Ma era già un tram moderno e nuovo di pacca. Alle spalle l'Olimpico ci faceva la guardia, restando l'arena inviolabile dei nostri eroi. In giallo e rosso o in bianco e azzurro, secondo i gusti. Il tifo calcistico era un'altra differenza che contava solo nelle prese per culo e non portava mai a contrasti reali.
Con il mio migliore amico, laziale, avevamo scommesso per un derby. Chi avesse perso, avrebbe dovuto indossare per una settimana la sciarpa della squadra "nemica". Io ho perso. Il fatto che non si fosse specificato come andasse portata, però, mi permetteva di trascinarla per terra e nei cassonetti, nel fango e nelle pozzanghere. La "penitenza" è durata circa quindici minuti.
Queste cose, e molte altre, sono Roma, per me.

Roma è una città che resta dentro. Che mi è rimasta dentro. Nel cuore. Nel modo di pensare. Nella parlata, in parte. Nella testa. Roma non è, per me, una metà turistica, è una parte di casa mia, ovunque essa sia.

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