16 ottobre 2013

Lampi di onestà. Lighning Bolt, Pearl Jam



Dare un giudizio su un nuovo disco dei Pearl Jam è difficile quanto rispondere alla domanda “vuoi più bene al babbo o alla mamma?”.

Dare un giudizio sulla nuova uscita della band che ti ha cresciuto e cullato negli ultimi 22 anni pone di fronte a dubbi etici di difficoltà pari alla soluzione del cubo di Rubik (o Rubrik o come si chiama).

Dare un giudizio sul nuovo album della band che ha, come cantante e autore, la persona che io, e non credo sia un mistero, considero un’eccellenza del genere umano, risulta scomodo.

Difficile e scomoda è la strada di chi si pone in tale situazione.

Emotivamente mi aspetto sempre TEN (o VITALOGY o NO CODE o BINAURAL) e questo potrebbe portare a rimanere delusi. Razionalmente mi aspetto un nuovo disco. Un nuovo gruppo di canzoni di una band che da più di due decenni suona e lo fa con la S maiuscola, con due palle belle grosse e che sa arrangiare i pezzi come pochi altri.

I Pearl Jam sanno scrivere canzoni e scrivono quello che ascoltano.

Non vogliono più stupire. Non ne hanno bisogno.

Non sono interessati all’ascolto di massa, al di là della macchina pubblicitaria messa in piedi. Parliamo di una band che, fino a qualche anno fa, non faceva videoclip per presentare i singoli e, quando lo ha fatto, e lo fa, utilizza riprese di performances live.

La mia impressione è che sia un disco molto composito che spazia tra i generi musicali amati dai cinque.

I cinque che formano una band che, oggi, va in sala d’incisione per registrare quello che sente di dover imprimere su disco.

Ne vien fuori un misto di pezzi: punk (la MIND YOUR MANNERS che, progressione di accordi a parte, ad essere onesto non ricorda per niente i DEAD KENNEDYS), ballad più o meno poppeggianti (SIRENS), un blues che, però, mi pare molto poco convinto (LET THE RECORDS PLAY) e pezzi molto rock & roll (GETAWAY, una delle mie preferite o MY FATHER’S SON).

Discorso a parte per quella ricerca di sonorità che portano avanti da qualche anno. Ogni tanto (qui in PENDULUM, ad esempio) si sentono suoni particolari che colorano le canzoni. Questo non vuol dire che stiano sperimentando in senso assoluto ma solo che, se nel motore musicale, hai Stone Gossard, ogni tanto lo devi lasciare libero.

Su tutto questo regna sovrano Mr Edward Severson III. La maturità gli ha portato in dono un utilizzo della voce molto composito e modulabile. Da l’impressione di essere in forma e a proprio agio qualunque sia il “tiro” del brano. Questo giovane cinquantenne riesce sempre a stupire per versatilità vocale e padronanza della scrittura.
Ed io mi inchino.

La quantità di ballate fa intendere che l’esperienza INTO THE WILD lo abbia orientato verso un certo tipo di canzone. Pezzi come YELLOW MOON riportano direttamente alle musiche che ci raccontano il viaggio e la morte di Alexander Supertramp.

Ecco! Adesso dovrei scrivere impressioni canzone-per-canzone ma preferisco lasciarlo fare a chi se ne intende.

Posso aggiungere che è il primo disco con un title-track (peccato per il “ritornello” un po’ tirato via), che SIRENS sarà di sicuro un pezzo che resterà (come del resto sono rimaste BLACK e, anni dopo, JUST BREATH perché gli esseri umani sono dei romanticoni), che si sentono parecchie chitarre acustiche, che un momento evitabile è sicuramente la riproposizione full band di SLEEPING BY MYSELF (brano tratto da UKULELE SONGS del solo Vedder) che pare una canzone di natale ma triste, alcuni brani saranno maggiormente apprezzati dopo alcuni ascolti (PENDULUM su tutti e che si aggiunge alla schiera di pezzi da apertura di un live), che la FUTURE DAYS in fondo al disco capovolge il finale di BACKSPACER. Laddove c’era una FINE qua c’è la speranza nei giorni a venire affidata ad un pezzo lento ed emotivamente coinvolgente.

E concludo con un’ultima considerazione. Negli ultimi anni ci hanno abituato a dischi da 10/12 brani all’interno dei quali trovare alcune gemme, molte canzoni oneste e qualche esperimento più o meno riuscito. Resta il fatto che, da sempre, è la loro onestà che me li fa apprezzare, anche se fanno un disco che non è un capolavoro ma è, nel complesso, un bel disco per la sua varietà e per la sua composizione.
E adesso LET THE RECORD PLAYS!!!

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