3 aprile 2012

Teorie

Spesso, per lavoro, tengo incontri nelle scuole. Tra i vari temi trattati, c’è il razzismo. Anche nella sua variante curativa: anti-razzismo o lotta al razzismo.
Sempre, per far capire ai ragazzi di cosa si sta parlando o per cercare di definire il campo entro il quale ci muoviamo, utilizzo il concetto di relatività e quello di stereotipo.
La relatività è un punto di vista interessante quando si parla di “diversi da noi”. Il dato fondamentale è che, facendo parte di una maggioranza, non si rientra nella minoranza dei diversi. Quindi relativamente al nostro universo maggioritario, noi siamo gli uguali.
La riflessione da fare si basa sul fatto che basta spostarsi in altro luogo (fisico o mentale) per “rischiare” di diventar noi la minoranza.
Lo stereotipo è, invece, una visione semplificata della realtà. Il suo utilizzo nelle classi, serve a spiegare alcune generalizzazioni razziste e discriminanti: il napoletano non ha voglia di lavorare, l’albanese ruba, il milanese vive di solo lavoro, il livornese è simpatico, le bionde sono stupide. Chiaramente sono semplici riduzioni della complessità della realtà perché non possiamo avere l’occasione di vedere tutti i napoletani non fare un cazzo, far partecipare tutti i livornesi alle gare di barzellette o portarci a letto tutte le bionde che ci sono per dimostrare che, da perfette deficienti, quando si rivestono indossano le mutande in testa. Dopo aver rinunciato a cercarne le istruzioni.
Lo stereotipo, quindi, porta a dare un giudizio affrettato e sommario della realtà perché ci aiuta a superare la paura di quello che non si conosce. La curiosità verso l’altro-da-se si può esaurire una volta scopertane la provenienza; ed il rifiuto diventa giustificato automaticamente in base a canoni stereotipati e, quindi, largamente accettati.
Io sono italiano ma non sono mafioso. Certo, mi piace la pizza e voglio bene a mia mamma ma mai mi sognerei di suonare un mandolino vestito da Pulcinella.
Al limite da Balanzone che, almeno, è dottore!

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